Ciò che mi Appartiene

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    Ciò che mi Appartiene
    « Prendere posizione. »
    Phaldebar; Innersmeer; Castello di Felsig; Autunno; 846.
    N
    on era ancora guarita del tutto dalle ferite riportate alla battaglia del Rotenkreuz che già s'era rimessa in piedi per governare con occhio severo l'assedio alla Rocca del Corvo. Lì, dentro le mura secolari del vecchio forte, Baldwin Von Trumel - l'ultimo dei ribelli - s'era asserragliato per sfuggire alla morte che, inevitabilmente, lo avrebbe atteso per il suo tradimento. Ma Vera non aveva fretta, sapeva bene di non avere né uomini né mezzi sufficienti ad assaltare la guarnigione e preferiva di gran lunga bombardare, con un concerto di obici e cannoni, i fortilizi per fiaccare il morale dei difensori - e magari portarsene via qualcuno nelle deflagrazioni. Quell'846 si era aperto con una stagione di conflitto che difficilmente Felsigfer avrebbe dimenticato: prima nel Phaldebar a rimetter mano alle armi dopo la caduta di Nox, aveva dimostrato al contado come il ruggito vitale del caos ancora s'aggirasse per le lande tribolanti del defunto impero. Ma ora si trovava nella difficile situazione di avere pochi uomini, molti dei quali feriti e malmessi, con altrettanta poca esperienza. Camminando tra le fila dei suoi soldati, alcuni ancora intenti a sonnecchiare alle prime luci dell'alba, si ritrovò a pensare a cosa sarebbe stato più giusto fare da lì in avanti: col supporto quasi garantito delle sue omologhe a Conartha e Asgard aveva una buona leva diplomatica, ma allo stesso tempo niente l'avrebbe adeguatamente protetta dai lunghi coltelli tipici della paura e dell'invidia. In molti si stavano ancora arrovellando l'anima per capire quale fosse la soluzione giusta per mandare avanti il paese e più d'uno, nell'inedia, si era lasciato abbindolare dall'idea che un conglomerato di patetici altosangue avessero la soluzione a tutti i mali. Ma lei, con le sue idee spiccatamente reazionarie e figlie di una nobiltà di spada che andava scemando nei cuori delle nuove generazioni, era di tutt'altro avviso. Non l'avevano fermata due pallottole al petto e non l'avrebbero potuta fermare nemmeno tutte le macchinazioni di Valerian e dei suoi lacchè.

    E non solo quelli erano i pensieri che le affollavano la mente. Un tale marchese, Phoenix Der Gonik, nei giorni precedenti si era apertamente ribellato al Consiglio assieme ad un manipolo di nostalgici, finendo per farsi letteralmente massacrare nel coprire la fuga dei suoi sodali. Voleva capitalizzare sulla situazione e sostituirsi, in maniera nemmeno troppo velata, come guida morale e materiale di chiunque desiderasse opporsi al Consiglio stesso. Certo i rischi erano molti, ma lei dalla sua aveva il fatto d'essere investita dall'alto di un potere superiore, cosa che nessun altro, nel Phaldebar, pareva tenere in considerazione. Le sembrava quasi che l'intera burocrazia phaldebita si fosse atrofizzata in un lento e inesorabile declino spirituale preferendo sfruttare il nome di Dio in modi abominevoli anziché costruire un valido futuro per lo stato. Avrebbe voluto canalizzare quel sentimento inerte di orgoglio per il passato in qualcosa di più grande, unire tutti gli esuli che ancora riconoscevano nella nobiltà d'animo la propria essenza e ricreare dalle radici un albero oramai morente, appassito, quale era Elonia. Per farlo, tuttavia, aveva bisogno di aiuto. Così, convocato di nuovo Baukav già ripresosi delle sue ferite, lo aveva spedito a cercare informazioni su chiunque conoscesse la posizione di questi ribelli. Il mastino aveva trovato solamente una adepta di Elonia, una tale Guendalina, che dopo una breve chiacchierata le aveva spiegato quel che era effettivamente successo al marchese e a molti dei suoi compari. Non una fine degna, ma senz'altro più onorevole di quella toccata a Samael. Con la consapevolezza di star cercando delle ombre nella notte, si era affidata unicamente al proprio Custode per perseverare nella ricerca, sfruttando ogni minima traccia, ogni parola, ogni singulto nel buio. E finalmente, quella fredda e umida mattina di fine autunno, vide tra le tende del campo aggirarsi l'imponente canide.
    I fanti, oramai avvezzi alla vista della creatura, quasi non badavano più a quella matassa di fumoso pelo nero che ondeggiava inquietante quasi sfidando con l'oscurità il chiarore dell'aurora, alcuni si erano addirittura convinti che quell'essere fosse un presagio di buona sorte, dacché ogni volta che lo vedevano conferire con Vera ella pareva sempre serena e sorridente, nonostante la situazione precaria. Un cane diabolico, latore di sventura, fattosi messaggero di buone novelle rimarcava ancora di più quanto contrastanti fossero la natura della Schneider ed il suo agire, il suo modo di fare.

      «Spero che la caccia sia andata bene, Custode.» gli disse, quando fu abbastanza vicino.
      «Meglio del previsto. Gli umani che cerchi si sono rintanati bene e hanno coperto le proprie tracce.» sbuffò, frustrato. «A quanto pare vedere il proprio signore morire ha messo loro una certa... paura esistenziale.» sorrise, per quanto potesse sorridere una bocca irta di zanne.
      «Sento parlare ma non sento nominare luoghi.» lo apostrofò malamente, facendo sparire l'espressione divertita dal muso della bestia.
      «Dopo un paio di giorni lontano da te quasi avevo scordato quanto potessi essere tediosamente fastidiosa.» brontolò, scuotendo la testa nervosamente. «Comunque si sono rintanati in una cripta dimenticata da Dio sulla punta settentrionale della penisola che da Howajae si affaccia nella Giungla del Senno Perduto. Un posto squallido, umido e pregno di codardia. Se ne stanno lì come topi in attesa del proverbiale alluvione che venga a spazzarli via.»
      «Quanti sono?» chiese la contessa che, nel frattempo, aveva preso a stropicciarsi un lembo della divisa con fare meditabondo.
      «Difficile dirlo. A naso ne ho sentiti almeno una mezza dozzina, ma forse non erano tutti lì. Come da ordini mi sono tenuto a distanza e non ho rischiato di farmi scoprire. Se mi avessero anche solo percepito, sono sicuro, si sarebbero volatilizzati di nuovo e non avevo alcuna intenzione di rimettermi sulle loro tracce.» drizzò il collo, sgranchendosi la schiena con un movimento fluido. «Ma c'è qualcosa di strano.»
    La bionda alzò un sopracciglio a quelle parole.
      «Vedi... nonostante quella lupetta ci abbia detto di aver visto morire Der Gonik sembra che qualcuno guidi ancora le loro mosse.» tentennò, incerto. «Li ho sentiti parlare con qualcuno. O per meglio dire loro parlavano e ascoltavano qualcuno che io non riuscivo a sentire né percepire in alcuna maniera. Non aveva odore, non faceva rumore. Niente di niente.»
      «Può essere uno dei tuoi fratelli?» chiese lei.
      «No. Nessuno dei miei fratelli potrebbe anche solo lontanamente fare qualcosa del genere senza l'esplicito consenso di nostro padre. E - onestamente - parlare con i mortali e guidarli nelle avversità non è esattamente una attività da... beh da me.» fece una piccola smorfia.
      «Potresti riempire una biblioteca con gli aforismi sul perché odi la mia schiatta, Custode, ma temo che questa volta tu abbia ragione.» sospirò, guardando in lontananza la Rocca del Corvo. «Il marchese potrebbe aver lanciato un qualche incantesimo, o magari c'è qualcuno che sta ammaliando tutti. Difficile a dirsi.»
      «O magari si è solo spinto un pochino troppo oltre ed è diventato un Lich.» suggerì il canide.
      «Un inudibile, impalpabile, impercepibile Lich?» lei lo guardò come se avesse appena sentito la più stupida delle scempiaggini. «Non che voglia escludere qualcosa a priori, beninteso, ma non mi sembra esattamente plausibile come possibilità. Credo stiano parlando con qualcuno tramite un arcano di qualche tipo, al massimo con uno spirito, se parliamo di un morto.»
      «In ogni caso, se vuoi andare a trovarli, portati dietro la tua negromante di corte. Meglio essere accorti in questi casi.»
      «Non è una cattiva idea. Va a prenderla e portala qui, partiremo entro metà pomeriggio.» lo comandò.
      «Puoi mandare qualcun altro? Sono appena tornato.» lamentò l'ataxia.
      «Io ho preso due fucilate eppure sto ancora facendo il mio lavoro, Custode. Ora vai, voglio che dama Lusienne sia qui per pranzo.»
    Baukauv, relativamente riluttante, ringhiò e prese a correre verso Felsig.

    [ ... ]


    Dopo aver lasciato il comando dell'assedio alla sua fidata Irem, ed essersi cambiate le fasciature sulle ferite, ebbe modo di pranzare con Marie Luise prima di mettersi in viaggio. Le spiegò sbrigativamente la faccenda, a mezza bocca, senza troppe convinzioni da portare a sostegno di una qualsiasi di quelle stravaganti - quanto plausibili - teorie. L'altra, di contro, sembrava assai interessata all'idea di scoprire se davvero uno spirito aveva cercato di tornare indietro da solo, senza l'ausilio di un tramite, per perseverare nei propri scopi. Il resto del pranzo passò rapido e in silenzio, tanto che alle prime luci della fine del meriggio già stavano cavalcando, ambedue in arcione all'ataxia, verso la penisola. Sebbene la negromante avesse più volte iniziato ad intavolare un qualche tipo di conversazione, anche solo chiedendo come stesse la contessa viste le ferite riportate, si era sempre vista rispondere con frasi brevi e concise prone a tagliare ogni discorso. Per stoica che fosse, alla fine, anche Vera aveva i suoi limiti e non riusciva a far altro che mandare il pensiero a cosa sarebbe successo dopo quelle piccole scaramucce, quegli attriti d'infima importanza, tra nobilotti di secondo letto. S'immaginava, nelle notti, il continente avvolto dalle fiamme della guerra, notte e giorno, in una vera e propria apocalisse che avrebbe spazzato via ogni cosa di quanto restava caro ad Elonia. Un conflitto che avrebbe distrutto ogni speranza e spalancato le porte ai potentati stranieri, nonché ridotto in cenere il credo in suo padre. Quella, tra tutte, era l'unica cosa che la spaventava realmente. Non la morte, non il dolore, non la sconfitta, ma la perdita sempiterna di tutto quel che lottava per mandare avanti. Ma se da una parte cresceva il dubbio, l'incertezza, dall'altra una eguale dose di profonda risolutezza andava montando nel suo cuore. Il conflitto rappresentava la sua stessa natura, il suo bisogno di alzare la testa e urlare contro il destino avverso. E lo stava facendo anche in quella cavalcata, arrischiandosi da sola verso l'ignoto per la vaga possibilità di ottenerne un vantaggio. Lei era fatta così, plasmata dal fato - e da Fehor - per non lasciarsi avvincere da niente e da nessuno, anche a costo di rimetterci la vita.

    [ ... ]


      «Dovevamo venire qui con un battaglione, contessa. Questo posto mette i brividi.» commentò la coolkhareana.
      «Un battaglione?» sogghignò Baukauv, incedendo con fatica nel fitto della vegetazione. «Perché una delle figlie di Dio e una creatura divina non sono abbastanza per te?»
      «Restate concentrati, entrambi.» li redarguì la bionda. «Non siamo qui per compiere una strage, siamo qui per parlare con queste persone e convincerle ad unirsi alla nostra causa. Arrivare con le scialbe estratte circondando tutto come un'orda di predoni non è esattamente quello che chiamerei un "bijoux" diplomatico.» davanti a lei Kladenets, volteggiando in aria, colpiva chirurgicamente arbusti e viticci aprendo il varco alla padrona. L'intera zona era un vero e proprio acquitrino: un fitto di rami, mangrovie, e alberi di varia natura che si erano andati mischiando a creare un dedalo impervio e ostile. L'aria pesante e umida, impregnata dall'odore salmastro dell'oceano, increspava i capelli e rendeva la pelle appiccicosa al punto da sentire i vestiti fastidiosamente ruvidi. Il sole, oramai al tramonto, già da una ventina di minuti non riusciva più a superare le piante e la stessa Vera era stata costretta a usare una lanterna a pirolite per illuminare chiaramente la via. Alle sue spalle, incespicando come una pulzella che indossa i tacchi per la prima volta, Marie Luise cercava di tenere il passo fallendo miseramente. Chiudeva il gruppo il canide che, a dispetto dell'enorme stazza, sgusciava sinuoso come una serpe tra gli angusti spazi di rami e radici.
      «Ricordi quanto manca, Custode? Non ci siamo persi, nevvero?» chiese la Schneider.
      «Chiedi a me se ho perso l'orientamento? Sono un mastino, non sbaglio mai.» rispose lui, sprezzante come sempre.
      «Se neanche una palla di cannone in pieno petto ti ha ammansito l'arroganza, onestamente, non so cos'altro io possa fare per spingerti alla modestia.» scrollò la testa, visibilmente turbata. «Bisogna sapere quando essere leoni e quando essere conigli a questo mondo.»
      «Come se io venissi da questo mondo, Vera.» a quella risposta l'erede si fermò guardandolo dritto negli occhi. Lusienne, che aveva ascoltato in religioso silenzio sino a quel momento parve temere l'inizio di un diverbio e s'affrettò ad allungare il passo superando i due.
      «Qualcosa non va?» la incalzò lui, fissandola a sua volta.
      «Siamo sull'orlo di qualcosa di grande. Qualcosa che definirà il futuro di questo paese.» iniziò la mezz'elfa. «E per quanto mi piacciano le persone sicure di loro, con poche remore e con ancora meno paure, temo tu non ti renda conto della situazione in cui siamo.» parlava a voce bassa ma con malcelata irritazione.
      «Sapevi che non sarebbe stato facile quando hai iniziato. Hai voluto sfidare tu "l'autorità" costituita.»
      «E non me ne pento. Questa è la mia missione, il mio scopo davanti e sopra a tutto, ma capisco anche di non essere immortale, di non poter far tutto da sola. Devi essere meno avventato, con i fatti e con le parole. Tu devi essere il maestoso destriero che porta alla vittoria la sua padrona, non un reietto scurrile che vaneggia e tratta i mortali con la sufficienza degna dei ratti.» fece un passo verso di lui illuminando il muso con la lanterna. «Se non riesci a comportarti bene, a cambiare atteggiamento, dimmelo ora così saprò di non potermi fidare di te.»
    Baukauv tentennò per un secondo, interdetto da quel discorso. Era stato preso a male parole, sgridato e minacciato, ma mai prima di allora Vera era arrivata a disconoscerlo per la sua eccessiva schiettezza ed esuberanza. Dopotutto, pensava, era nella sua natura di mostro agire nella più completa e inverosimile arbitrarietà, infischiandosene del bene e del male. Eppure, come un sussurro malevolo, la paura di essere rifiutato dalla sua padrona lo colpì più duramente di quanto avrebbe mai potuto credere. Più forte di ogni pulsione, più potente di qualsiasi colpo di cannone. Abbassò il muso, rugghiando remissivo.
      «Ci proverò.» sbuffò dal naso. «Non faccio promesse che non posso mantenere.»
      «Quando tutto sarà finito potrai tornare a fare lo sciagurato, nei limiti del buonsenso di mortale concezione.» lo rassicurò. «O se ti mancano le tue orge infernali posso rimandarti dei tuoi simili per tutto il tempo necessario. Ma ora mi servi qui, con la testa e con le zanne.»
    Lui annuì ma prima che potesse rispondere la voce della negromante richiamò la loro attenzione.
      «Contessa, Custode, venite qui! Credo che sia il posto giusto!» pur non urlando, per ovvi motivi, il tono della voce le si era decisamente alzato per l'emozione di avere davanti agli occhi un possibile - ed ennesimo - luogo di studio.

    Oltre un ultimo, quasi impenetrabile, muro d'alberi sorgeva una struttura logora e decadente. Originariamente avrebbe dovuto essere uno splendido mausoleo monumentale, ornato con statue e giardini, ma il tempo e le piante lo aveva consunto fino a mangiar gran parte della pietra e ridurre al silenzio le statue che ne adornavano il colonnato. Una porta visibilmente più moderna del resto, sebbene raffazzonata e costruita con rami licheni intrecciati, sbarrava l'ingresso. Alla luce morente del giorno, nell'immobilità dell'aria, solo il gracidare dei rospi sembrava spezzare l'apatia del paesaggio.
      «Sì, è questo il posto.» bisbigliò Baukauv. «Quando sono venuto la volta scorsa la porta non c'era. Immagino che l'umidità, le bestie e gli insetti li abbiano spinti a barricarsi dentro.»
      «Porta o no adesso devono rispondere ad un paio di domande.» si avviò verso l'uscio portando seco Kladenets, sempre intenta a svolazzare al fianco della proprietaria. Se nella parte alberata a render difficile l'incedere erano i fittoni sporgenti e bitorzoluti, in quella piccola radura il fango e le pozze d'acqua complicavano e rendevano scivoloso ogni passo. Il calpestio di ogni falcata, per breve e controllata che fosse, emetteva un fastidioso e melmoso rumore. L'unico a fare poco chiasso era nuovamente Baukauv, che pur disgustato dal lordarsi le zampe, si muoveva con più grazia delle sue accompagnatrici umane. Avvicinatasi abbastanza fece bussare la spada, colpendo con una certa malagrazia l'infisso, ma dall'altra parte nessuna risposta. Scambiò una veloce occhiata con i compagni, altrettanto perplessi, dopodiché colpì di nuovo con maggior vigore. Il riverbero dei colpi si propagava nel silenzio, eppure nessuno pareva prestarvi orecchio. Alla fine, stizzita dall'attesa, indicò la porta con la mancina.
      «Custode.» e senza farselo ripetere due volte il canide vi si abbatté contro come una furia mandandola in mille pezzi. Chiaro era come, anche ad occhio inesperto, non si sarebbe mai aperta nemmeno volendo: l'interno era stato puntellato e sbarrato da travi e assi abbastanza fitte da impedire a qualcuno con meno di duecento chili di muscoli di averne la meglio facilmente. Cosa avesse potuto spaventarli a tal punto da asserragliarsi a quella maniera era del tutto incomprensibile.
      «Sei sicuro che non fossero braccati da altri, oltre che da te?» domandò Vera affacciandosi oltre quel che restava dell'uscio.
      «Sicurissimo.» affermò. «In caso contrario c'era il Caotico in persona a dar la caccia a questa gente.»
    L'interno era buio e puzzava di muffa al punto tale da togliere il fiato. Per quanto relativamente tollerabile, almeno ad un naso abituato, nessuno sano di mente si sarebbe volontariamente segregato in quel luogo. Non senza una valida motivazione. Marie Luise, che già aveva dato i primi segni di disturbo all'idea di aprire la porta, quando le arrivò la zaffata d'olezzo per poco non rimise quel che aveva mangiato a pranzo. Dopo essersi accertata, con lo sguardo, che l'arcanista fosse in grado di proseguire Vera illuminò meglio l'interno della cripta. Dopo un piccolo pianale che, al secolo, doveva essere marmo pregiato si trovava una lunga scala del medesimo materiale che scendeva verso il basso. L'acqua e le infiltrazioni di muschi e radici l'avevano resa pericolosa e scivolosa, tanto che per incidere dovettero tutti, persino Baukauv, appoggiarsi al muro e far leva con un braccio. Ad accompagnarli, come un inseparabile memento, quel rumore bagnaticcio e sporco che produceva il pavimento ad ogni lor passo. Alla fine della scalinata, che arrivava direttamente in un corridoio lungo e stretto, trovarono i primi segni del passaggio materiale di qualcuno - oltre la porta, beninteso - nella forma di una vecchia bisaccia ed alcune armi. L'erede, chinatasi per controllare meglio, arricciò il naso. Nessuna di quelle lame aveva la giusta fattura per appartenere ad un nobile, erano tutte di qualità infima, rozza, con impugnature e guardie che lasciavano molto a desiderare. Il fabbro che le aveva prodotte non si era nemmeno degnato di lucidare il metallo né di proteggerlo in qualche maniera, tanto che la ruggine aveva già preso a mangiare alcune delle parte più esterne.

      «Sono quasi sicura che queste provengano da qualche armeria di quart'ordine.» commentò, rendendo gli altri partecipi dei suoi pensieri. «Non sono molto vecchie, la pelle dell'impugnatura è nuova ma la lama in sé pare essere stata maltrattata oltre ogni dire.» Kladenets, come avendo capito la trascuratezza con cui le sue simili erano state trattate, ebbe quasi a prender vita e compiere una strana piroetta nervosa a mezz'aria.
      «Se hanno barricato la porta perché non portarsi dietro anche le armi?» domandò giustamente Marie che, nel mentre, si era portata un fazzoletto al volto per pararsi da quell'odore intollerabile.
      «Non ne ho idea ma immagino che lo scopriremo presto.» rispose Vera.
      «Muoviamoci. Questo posto mi sta facendo diventare claustrofobico, non sono esattamente delle dimensioni giuste per sgusciare nelle fogne.» incalzò l'ataxia.
    Dopo aver accatastato meglio le armi sul lato del corridoio, con un piede, la bionda proseguì trascinando dietro di sé i malcapitati compagni.

    Laggiù, a quasi dieci metri di profondità stimati più a occhio che con certezza, l'aria era fredda e pungente. Pizzicava la pelle come un rovo e penetrava nelle ossa come la più fredda delle notti d'inverno. Un freddo strano, fastidioso, che nessun indumento e nessuna sciarpa sembrava poter in qualche modo allontanare. Nemmeno lo scoppiettio della pirolite nella lanterna, di solito rovente, riusciva a scaldare l'aria tutt'intorno. E alla fine di quel lungo corridoio, d'improvviso dall'oscurità più nera, apparve l'ingresso ad una stanza ben più ampia. Non aveva porta né infisso, solamente un'apertura decorata con fregi e basse colonne oramai reclamate dal tempo e dalla muffa, e sebbene la luce non riuscisse a rischiarare che una piccola porzione della sala ben evidenti erano casse, piccoli bauli e sacchi abbandonati al loro destino. Quando la contessa provò ad avvicinarsi, oltrepassando la soglia, uno sbuffo del Custode la fermò.
      «Qualcosa non torna?» chiese.
      «Sento... il loro odore. Sono sette, tutti nella stanza davanti a noi ma...» inclinò la testa, perplesso. «Sembrano addormentati. Sono immobili e respirano piano, lentamente. Li percepisco appena, se non fossimo così vicini li darei già per morti.» anche se bisbigliava la voce cavernosa e gutturale ben poco aveva da spartire con un sussurro. Eppure dalla stanza nessun suono, nessun movimento.
      «Non è che hanno deciso di ammazzarsi con qualche bella mistura?» aggiunse poi. «Per quanto ne sanno loro usciti da qui li attende la forca, se sono fortunati, o un giro in qualche vulcano se il Consiglio è di cattivo umore.»
      «Esistono modi molto meno inetti per togliersi dal mondo.» disse Vera, stringendosi nelle spalle. «Tieniti pronto, potrebbe essere una trappola di chissà che tipo. Oramai ne ho viste abbastanza per non fidarmi di una stanza con gente che non si sveglia nemmeno dopo tutto il fracasso che abbiamo fatto.» detto quello varcò la soglia ritrovandosi davanti all'enorme pila di vettovagliamenti. Molte erano semplicemente casse di viveri a lunga conservazione, frutti secchi e otri d'acqua, ma non mancavano anche coperte, dardi e quello che pareva un barilotto di polvere pirica ancora perfettamente sigillato. Alzando la lanterna per illuminare meglio le pareti, vide sette figure avvolte dai propri mantelli l'una accanto all'altra. Tremavano e sembravano intrappolati in qualche lungo e terribile incubo. Avvicinatasi per sincerarsi delle loro condizioni li trovò febbricitanti, sebbene respirassero quietamente. Quattro erano uomini, avevano barbe incolte e ispide, le altre tre donne, tutti relativamente giovani, ma puzzavano come se non toccassero acqua pulita da settimane. L'unico a non essere umano in senso stretto era un draconiano dalle scaglie bluastre che, per sua natura, più che sudare aveva degli spasmi deboli e continui della coda.

      «Marie... riuscite a capire cosa abbiano?» domandò, facendo cenno alla negromante di avvicinarsi ai corpi. La donna però non rispose, rimanendo immobile a fissare davanti a sé.
      «Marie Luise?» la chiamò di nuovo, tanto che lo stesso ataxia, colpendola delicatamente col muso, provò a scuoterla da quel suo apparente torpore. Niente, però, pareva attirarne l'attenzione.
      «Che diamine le è preso?» esclamò innervosito il canide. «Umana, rispondici!»
    I secondi parvero rallentare mentre tutto profondava nel silenzio più assoluto. Poi, d'improvviso, gli occhi della strega si fecero neri, adombrando anche la sclera in un pozzo d'oscurità. Ebbe uno spasmo così forte che, per un attimo, rischiò persino di cadere carponi al suolo solo per riprender l'equilibrio all'ultimo secondo. Pareva che qualcuno l'avesse colpita con violenza alle spalle con uno spintone o che, peggio ancora, si stesse divertendo a cercare di farla volutamente inciampare. Continuò a barcollare a destra e sinistra per alcuni istanti mentre sia Baukauv che la sua padrona, increduli, si allontanavano per evitare di venire colpiti da quei movimenti spastici.
      «Questo non è decisamente normale.» ringhiò il mastino.
      «E fin qui c'ero arrivata da sola, Custode.» Kladenets fluttuava davanti alla padrona che, con gli occhi fissi sulla donna, cercava d'intuire quale morbo l'avesse colpita. «Marie Luise cerchi di fermarsi dannazione!» le gridò.
      «La fermo io, mi sono stancato.»
      «No!» gli intimò. «Rischi di farle del male o, peggio ancora, di prenderti qualsiasi cosa abbia preso lei.»
      «Sono un ataxia, non una scimmia senza peli, non mi prenderà assolutamente niente.» e ignorando i comandi della padrona balzò sulla donna atterrandola - con sorprendente delicatezza per una creatura della sua stazza - e trattenendola con la zampe anteriori. Dopo alcuni istanti di inutile dimenarsi, condito con inquietanti gorgoglii, finalmente Marie smise di lottare. Vera si avvicinò, illuminandole il volto giusto in tempo per vedere quegli occhi neri come pece fissarla coadiuvati da un sorriso sghembo e distorto.

      «Finalmente!» disse Marie con la voce più fioca e strozzata che avesse mai proferito. «Un corpo utile alla mi situazione. E un ataxia. E una erede del Padre Caotico.» si schiarì la voce. «Ti dispiacerebbe farmi alzare, bestia? Questo corpo è già recalcitrante a farsi controllare, vediamo di non rovinarlo prima del dovuto.» continuò, rivolgendosi al mastino che ancora teneva ben fermo il corpo della negromante.
      «Ah... certo era con te che parlavano, vero?» la bionda affilò lo sguardo. «Posso sapere il tuo nome, spirito?»
      «Non... è importante.» rispose stizzito. «Cercavo solo un modo per andarmene da qui. Quei poveri imbecilli hanno provato ad offrirsi uno dopo l'altro ma nessuno di loro era "accomodante" come lei.» spiegò, alludendo alla Lusienne. «Sentivo la loro paura. Sentivo il loro turbamento. Li ho spinti a barricarsi qui nella speranza che nessuno li trovasse mentre cercavano di riportarmi maldestramente indietro.»
      «Oh, cercavano di riportarti indietro. E per cosa, esattamente, avrebbero dovuto farlo? Non per essere sgarbata ma non mi sembri esattamente nelle condizioni di poter aiutare qualcuno. Specie dall'oltretomba.» la contessa inclinò la testa appena, scrutando con i suoi occhi smeraldini quelli oscuri di lui alla ricerca di un segno, di una qualsiasi traccia.
      «Ma che razza di insolente. Io, per tua informazione, sono uno dei primi figli del Caos.» con un certo orgoglio gonfiò il petto a quella risposta. Se non fosse stato nel corpo di Marie Luise - cosa che rendeva il tutto a dir poco inquietante - l'intera scena avrebbe avuto del patetico.
      «Allora ascolta me, spirito. Marie Luise è la mia arcanista di corte e mi serve viva, vegeta e sana. E mi servono anche tutti gli altosangue che tieni qui a morire di stenti per qualche tuo perverso giochino.» aggrottò la fronte. «Quindi ora tu lasci Marie, sparisci dalle vite di chiunque e vai tra le braccia di Spirae.»
      «No, non credo lo farò.» la canzonò la creatura. «Cosa pensi di fare? Di uccidere questa donna? Mi basterebbe aspettare il prossimo malcapitato... magari sarai proprio tu. Riconosco l'odore di mio padre quando è così vicino.»
      «Sei davvero un mio fratello?» domandò Baukauv. «Non ne hai l'odore, né l'aspetto.»
      «Sono molto più di questo, mio caro. Molto di più. Non sarei riuscito a resistere tanto a lungo se facessi parte della tua stirpe inferiore. Io sono più simile a lei.» e con la testa indicò Vera.
      «A me?» la bionda s'incupì ulteriormente a quelle parole.
      «Sì. Un tempo ero uno come te. Sai un ered-» mentre parlava un riverberò d'energia caotica pervase l'aria. Una vibrazione così forte e intensa da far letteralmente strappare per alcuni istanti lo spirito dal corpo di Marie Luise. La negromante, in quella frazione di secondo, riuscì a liberarsi dalla possessione ricacciando lo spirito all'esterno e rendendolo visibile ai compagni. Era provata, visibilmente affaticata, e tenere in trappolata l'anima le stava costando più di quel che - palesemente - aveva ancora da poter dare.
      «Tu simile a me? Tu simile a me?!» Vera si alzò in piedi allungando la mancina verso lo spettro che, nel frattempo, era diventato una silhouette traslucida e appena percettibile. Non aveva volto e non aveva voce, ma dal dimenarsi isterico facile era comprendere come stesse cercando di trarsi in salvo con tutte le sue forze.
      «Voi patetici buffoni, schiavi della vostra vanagloria, mi disgustate. Guardati!» strinse le dita della mano e l'aria attorno alla sagoma prese a vibrare strappando, pezzo dopo pezzo, piccoli frammenti della sua essenza.
      «Un guscio vuoto e balbettante capace solo di prendere qualcosa che non è suo. Lei è la mia arcanista, mia e soltanto mia!» serrò ancor di più le dita e lo stesso etere parve scricchiolare sotto quello sfoggio di potere rozzo e caotico. Il volto della giovane, oramai contorto in una smorfia rabbiosa che mal di sposava col suo temperamento, pareva esser quello di un demone fuoriuscito dall'abisso.
      «Sei un codardo!» l'intera stanza prese a tremare debolmente sotto gli occhi atterriti dell'arcanista e del canide. «Gente come te ha distrutto Elonia! Il vostro tempo è finito. Finito! Ora e per sempre!»
    Con uno stappo secco, come di un grande telo che si squarcia d'improvviso, la figura dapprima perse coesione e poi, in uno strano e distorto rumore, simile ad un grido sott'acqua, si polverizzò svenendo nell'aria.
    Un lungo momento di silenziò fece eco al respiro affannoso di Vera che, con ancora il braccio proteso, guardava il vuoto ove prima era intrappolato lo spettro. Tutt'attorno a lei casse, bauli e vettovaglie erano volati in giro, spinti da quella forza inesorabile che era fluita verso l'esterno come un fiume in piena. Una fiumana di caos incontrollato che aveva spaventato persino Baukauv. Mai, prima di allora, l'aveva vista perdere il controllo a quella maniera. Mai, prima d'allora, l'aveva creduta capace di annientare qualcuno con tale freddezza.

      «Custode, aiutami a portare fuori i nobili.» disse. «Marie Luise uscite, se potete, e preparate un fuoco con cui riscaldarvi. Abbiamo tanto lavoro da fare.» e voltandosi a guardare i malcapitati ancora svenuti, increspò le labbra in una smorfia meditabonda.
     
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